Rubrica: Attualità di CLAUDIA RINALDI.
Negli ultimi anni è di moda il ritorno ai grani antichi, semi millenari o centenari, come il Senatore Cappelli, che fa da padrone, o il Solina d’Abruzzo o il Verna toscano. Le moderne cultivar, successive agli anni ’70, hanno subito varie modifiche per essere “nanizzate” e quindi più difficili da abbattere in caso di maltempo e più facili da raccogliere con i macchinari; spesso poi hanno un contenuto più alto in glutine (alcune fino al 17%) e rendono meglio nel processo di panificazione.
Ci si chiede se questo ritorno ai grani locali e antichi sia solo una moda o qualcosa di più. Molti studi hanno dimostrato che le varietà antiche sono più fornite di antiossidanti e minerali, hanno un impatto glicemico inferiore e contengono meno citochine infiammatorie, mentre i grani più moderni hanno maggior tenore di molecole immunogene indigeribili.
Senza poi pensare che i grani antichi rispettano la vocazionalità ambientale, sono espressione della identità culturale di un territorio, hanno caratteristiche organolettiche peculiari e diverse tra di loro, aumentando la biodiversità, alimentano e fanno crescere filiere locali, creano comunità. Scegliere grani tradizionali, spendendo qualcosa in più, magari partendo dal prezzo riconosciuto ai contadini che le ripropongono, può diventare una nostra significativa azione per rendere più sostenibile, sotto il profilo ambientale e sociale, quella fetta di sistema agroalimentare.