Rubrica: Attualità di CLAUDIA RINALDI.
Tutto il mondo sta soffrendo per la quasi completa cessazione di esportazione di grano (da dati del dipartimento statunitense USDA) dall’Ucraina dilaniata dalla guerra, ma anche il riso, su cui ben si potrebbero spostare i consumi mondiali, è in enormi difficoltà. Tra l’altro proprio l’Italia è la risaia di Europa, coprendone la metà del raccolto con 227mila ettari coltivati e 3700 aziende agricole che raccolgono 1,5 milioni di tonnellate di risone all’anno. All’esplosione dei costi energetici, gasolio e fertilizzanti, va aggiunta la preoccupazione per la grande siccità con i livelli di falda eccezionalmente bassi e il rischio di riduzioni estive della risorsa idrica superiori al 30% con i livelli del Po scesi a -3,38 metri al ponte della Becca (Pavia) più bassi che in piena estate e i grandi laghi semi vuoti con il Maggiore che è ad appena il 28% del suo riempimento e il Como a meno del 6%. La mancata disponibilità di acqua pesa nelle fasi inziali di sommersione con il 90% del riso italiano che si coltiva nel triangolo d’oro tra Pavia, Vercelli e Novara ma la coltivazione è presente in misura significativa anche in Veneto, Emilia Romagna e Sardegna. A preoccupare non sono solo l’economia e l’occupazione per oltre diecimila famiglie tra dipendenti e imprenditori impegnati nell’intera filiera ma anche la tutela dell’ambiente e della biodiversità. Sono 200 infatti le varietà iscritte nel registro nazionale, dal vero Carnaroli, con elevati contenuto di amido e consistenza, spesso chiamato “re dei risi”, all’Arborio dai chicchi grandi e perlati che aumentano di volume durante la cottura fino al Vialone nano, il primo riso ad avere in Europa il riconoscimento come indicazione geografica protetta, passando per il Roma e il Baldo che hanno fatto la storia della risicoltura italiana.