L’attività più importante di questo mese, in pianura e in collina, era la vendemmia. A ricordare il momento migliore per questa operazione, un proverbio avvertiva che par San Michêl l’óva l’è tóta mêl, per San Michele (29 sett.), l’uva è tutta miele, cioè dolce e matura al punto giusto per essere raccolta.
Si preparava tutto l’occorrente per la vendemmia: panieri, cestoni, forbici, scale ecc. poi, un vero “esercito” di uomini, donne e ragazzi si incamminava verso gli alti tralci del vigneto legati agli olmi e con scale, piccole roncole e forbici dava inizio alle operazioni della vendemmia.
La vendemmia veniva allora eseguita a mano con l’aiuto di lunghe scale (scalàmpi) e di cesti (cavàgn) e vi partecipava tutta la famiglia, anche i ragazzi e i bambini, che raccoglievano i grappoli dai rami più bassi, mentre uomini e donne facevano la raccolta su lunghe scale.
Allora l’uva, a differenza di oggi, cresceva alta, sostenuta dagli alberi, aceri campestri, gelsi, alberi da frutto ma soprattutto olmi, pertanto si diceva “maritata all’olmo”.
L’uva veniva raccolta in canestri che si vuotavano poi nella navàza, una specie di grande botte a forma di barca, caricata su un carro agricolo trainato dai buoi. In seguito, dopo essere stata portata nelle cantine della casa colonica, veniva vuotata in un’apposita vasca di legno, chiamata mustadôra o sgualzidôra e schiacciata con i piedi.
La pigiatura coi piedi, che avveniva tra risate, canti, lazzi ed era un grande divertimento per tutti, rendeva migliore e meno amaro il vino, in quanto si schiacciavano solo gli acini e non i raspi del grappolo.
(Da S. Prati – G. Rinaldi, Il Ciclo dei mesi nella Civiltà contadina. Ed. Pendragon, Bologna, 2016)

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